Somewhere di Sofia Coppola è il film vincitore della 67esima Mostra del Cinema di Venezia.
Una Ferrari nera ultimo modello sfreccia su una distesa di sabbia sempre sullo stesso tracciato circolare, sembra non doversi fermare mai. La vita di Johnny Marco è così, il perpetuo ripetersi di qualcosa che consuma lentamente.
Sul fatto che in questo non ci sia nulla di originale siamo, credo, tutti d’accordo. La storia dell’attore hollywoodiano soffocato da una vita dissipata, da volgari starlettes e da ingombranti fotografi che trova una via di fuga nell’innocenza l’abbiamo già vista. Questo non impedisce che Sofia Coppola possa raccontarcela nuovamente dal suo punto di vista.
L’imprevisto che colpisce l’attore si chiama Cleo, la figlia adolescente che vive con la madre. Con lei Johnny si ritrova a convivere per qualche giorno, fino alla partenza della ragazza per il campeggio.
Il film emana sincerità, semplicità e un senso di soffocamento. Non c’è nessun luogo nel film che si possa definire intimo, tutto è impersonale, asettico e vuoto come la vita dell’attore. Lo stile registico si allinea limando ogni sbavatura, ogni inutile virtuosismo. Quello che resta sono continui zoom lentissimi in cui tutto è immobile.
Tutto sommato Sofia Coppola ci ha abituati bene: film intimisti in cui il silenzio impera, ma che non danno mai noia per qualche incursione del rumoroso universo pop (Marie Antoinette e Lost in Translation penso possano essere, forse sbrigativamente, descritti così). Somewhere è diverso, è come un grosso mattone che non si muove mai, non ha niente che lo traini (il momento dei Telegatti forse doveva assolvere questa funzione ma non ha la stessa efficacia) e rimane sempre uguale a se stesso nell’attesa mai soddisfatta dell’inaspettato.
Non siamo di fronte a un film per ragazzine che giocano a fare le alternative e giudicano geniale l’ingresso di un paio di Converse a Versailles, siamo di fronte ad un tentativo di crescita. Questo tentativo è nella direzione del film d’essai ed è abbastanza riuscito per quanto rimanga qualcosa di incompleto. La regista non si diverte a rifare Antonioni, prova solo a dirci che sta tentando di emanciparsi. Diamole ancora un po’ di tempo.
robycorgan
16 settembre 2010
La mia idea è leggermente diversa.
Forse Sofia l’ha fatta in barba a tutti: è riuscita con un lentone senza senso e senz’anima a portarsi a casa il Leone d’Oro e perfino il plauso di persone che stimo intellettualmente.
La Coppola, celebre per il suo intimismo a tratti pop e a tratti d’autore, ci aveva fin troppo abituato a film (apparentemente) vuoti, ma proprio per questo potenti e affascianti.
E ora, dopo l’incursione nel film storico, torna allo scenario vuoto di un altro hotel (dopo “Lost in Translation”) a raccontare i drammi esistenziali di un’anima perduta nella nostra epoca. Bene. Ma il problema qual’è?
Il fatto è che di fronte a tutto ciò si possono discernere due tipi di spettatori: chi nel bene o nel male salva il film, come qualcosa che per la sua inutile lentezza fa “un passo in più” all’interno del percorso della regista, e chi invece fiuta qualcosa che puzza.
Ovvero la libertà che la Coppola si è presa di diventare la parodia di se stessa, e di “fregare” il suo amato pubblico propinandogli un’iperbole di tutto ciò che è stata finora la sua cifra poetica, dilatando i tempi e gli spazi a più non posso, e prendendo in giro tutti col minimo sforzo, aggiudicandosi pure un premio.
Inquadrature prolisse e senza senso, recitazione appena discreta, tema poco originale, e addirittura un finale buonista.
Forse ha voluto fare il passo in avanti realizzando qualcosa che va aldilà del cinema canonico; in realtà, dall’impressione irritante che mi ha dato in sala, la verità è che l’hai fatta a tutti, Sofia.
robycorgan
16 settembre 2010
p.s.: riguardo alle ragazzine alternative e alle converse di Marie Antoinette, questa sembra la tipica affermazione di chi non comprende realmente l’irriverenza che rende unica la poetica della Coppola, in cui questi sprazzi kitsch non servono a risvegliare l’attenzione dello spettatore assopito o come specchio per le allodole, ma solo ad arrichire l’idea tutta personale di cinema che ha la regista; le quali qui invece ovviamente mancano, rimpiazzate invece da scialbe e interminabili sessioni di Nintendo-Wi, ampiamente pubblicizzato.